martedì 30 luglio 2013

"La lettera scarlatta" di Nathaniel Hawthorne


“Che cosa starà facendo?”dice un’ombra alle altre. “Sta scrivendo un libro di racconti! Che mestiere sarà codesto, che maniera di glorificare Dio o di essere utile agli uomini, nel suo tempo e generazione?” Tanto varrebbe che questo snaturato fosse violinista” (cit. dal prologo)

        Leggere almeno un classico ogni tanto (tutto sta a quanti libri si leggono in un anno)  non può far che bene alla salute mentale: si fa un tuffo nel passato e ci si ritrova a pensare a quanto, nel corso dei secoli,  siamo
riusciti a conquistare in dignità umana e quanto abbiamo perso in linguaggio, romanticismo e capacità narrativa.
   
     N
athaniel Hawthorne (Salem 1804 – Playmouth 1864) è, indiscutibilmente, considerato uno dei maggiori simboli della letteratura statunitense dell’ottocento.  Il suo modo di scrivere è ricco di quel romanticismo che ritroviamo nei romanzi tipici della fine del XVIII secolo.  Nonostante il linguaggio non poco complesso, “La lettera scarlatta” sa farsi leggere, sin dal singolare prologo, con partecipazione ed interesse  sempre crescenti.
In questo romanzo ho trovato, oltre che un’intensa storia d’amore, tutta la malvagità e l’ipocrisia – dettate dall’ignoranza -  degli uomini che si ergono ad insindacabili giudici dei sentimenti, tutta la codardia dei maschi (perdonatemi, ma è quel che ci ho visto) incapaci di sostenere la condanna dello sberleffo della gogna,  sicuri di non essere scoperti (complice la natura e l’amore incondizionato della donna amata). Il finale mi ricorda la romantica storia di “Abelardo ed Eloisa”. 

     La storia, si svolge nel 1600 in un’America puritana (che, per certi versi, resiste fino ad oggi), inizia con la scena della piazza nella quale è posta una gogna, su di essa è “esposta”  una giovane donna, Hester Prynne, con la sua bambina di pochi mesi.  Gli inquisitori esortano la donna a rivelare il nome del padre della bimba ma la donna tace e viene così condannata  a portare cucita sul petto il segno della sua colpa: una lettera "A” di panno rosso, resa più evidente da una sgargiante orlatura color oro. La piazza è gremita da gente che, senza pochi scrupoli, esulta per tale condanna. 
Tra gli spettatori si cela anche il marito di Hester; partito da anni senza dar più sue notizie, l’uomo ritorna  sotto il falso nome di Roger Chillingworth e si afferma quale medico delle personalità del paese. Presto la donna lo incontra e lo riconosce ma, dietro richiesta dell’uomo, tace sulla sua vera identità.
La vita della donna e di sua figlia, in continuo scherno da parte di tutti,  non è facile ma con la sua grazia e il suo lavoro di ricamatrice pian piano la fanno benvolere da tutti. Quella lettera “A” sul petto diventa un semplice segno privo di significato.
Figura di spicco nella comunità religiosa, è il giovane reverendo Dimmesdale che, in diverse occasioni, prende le difese di Hester e di Pearl che nel frattempo cresce con un’animo ribelle e indomabile. 
Il peso di un grande segreto custodito nel e sul cuore del Reverendo, lo conduce volutamente ad un’estenuante vita di stenti, privazioni e preghiere fino a farlo gravemente ammalare di una malattia apparentemente inspiegabile per la quale il dott. Chillingworth nutre un particolare interesse e si offre, così, di curarla. I tentativi restano vani.
Dimmesdale, sentendo la sua fine vicina, decide di soggiogarsi al peso dell’ignominia e confessare la colpa : lui è il padre di Pearl. Hester lo convince a tacere e fuggire tutti e tre in cerca di una nuova vita, ma il Reverendo vuole espiare il suo peccato davanti al popolo, quel popolo che lo ama e lo prende ad esempio di castità, purezza e bontà: la verità verrà resa solo in parte … il resto è sepolto in due tombe vicine unite da un’unica lapide su cui è stata incisa una grande lettera “A”.